L’uomo aveva i capelli corti, gli occhi vivi. Le scarpe perdute scoprivano i piedi nudi, su cui si affacciavano i primi peli. Una camicia, la sua, di scarsa qualità e ancor più scarso stile: a quadrotti, marroncina e i jeans, anche loro marroni, con una cintura di pelle.
La camminata lenta, i piedi deposti piano, ogni passo poggiato con la prudenza di una dichiarazione in tribunale. Le unghie dei piedi lunghe e un po’ gialle, non abbastanza per fare rumore.
Un’altro uomo davanti a lui, si era avvicinato con la stessa cautela. La barba era più corta, la camicia stirata si abbinava bene ai pantaloni, moda curata ma non pretenziosa. La faccia, più pulita, pareva quasi la stessa. Praticamente la stessa, ma non proprio. Lì, proprio lì, non c’era forse una ruga in meno? Gli occhi non erano forse meno scavati? E lo sguardo, non brillava forse della spontanea ironia che mancava all’altro? La stessa, la stessa faccia: solo, mondata di qualche angoscia o dolore. Il primo lo aveva scrutato, provato a toccarlo, e l’altro aveva risposto: quanto può essere guardinga l’immagine riflessa di uno specchio?
Un pugno: il vetro si era sfasciato, e l’uomo già osservava la sua mano, la pelle rotta in più punti. Ed il rosso risaltava come un flauto nel silenzio.
E comparivano altri specchi: un uomo con i capelli lunghi raccolti in un codino, la camicia aperta sul petto metteva in mostra la collana del tipo quasi tribale.
Quest’altro, impettito rigido, sembrava sicuro di sè con quella valigetta di pelle. Ma i pezzi di vetro sembrarono subito farsi gioco di quella schiena dritta, di quel portamento marziale.
E così ne arrivavano altri: c’era il postino, il veterinario, l’artista e il fanfarone, il donnaiolo e il prete, la stessa faccia provata ogni volta da un diverso sarcasmo del destino.
Poi finirono, la terra era coperta di vetri. Quando l’uomo con la camicia a quadrotti si rimise in cammino, scrocchiavano sotto i piedi sanguinanti. Ferite che urlavano di dolore, il dolore di tutti loro, coloro che non aveva vissuto.
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