La delega ad altri è una delle psicotrappole peggiori, sia a livello individuale, gruppale, familiare o istituzionale. Si parla di delega per riferirsi al tentativo, diretto o indiretto, di trasferire ad altri compiti e responsabilità che invece competono ad una certa persona, gruppo o istituzione. Ha una serie di effetti nefasti, perchè, per incapacità, incuria o negligenza si trasforma nel meccanismo complementare alla rinuncia; se rinuncio a fare qualcosa che tuttavia è fondamentale, cercherò di far sì che se la accolli qualcun altro. E’ ancora più dannosa quando squalifica non solo la persona che delega e la qualità dell’azione condotta, ma anche, come nel caso dei bambini, quando coinvolge chi non ha la forza e le risorse per reclamare per sè ciò che dovrebbe essere un suo diritto: una famiglia amorevole, una scuola colta e nutriente e una società attenta.
Delega dei genitori
Il primo momento di delega si verifica già a livello della famiglia nucleare. I genitori spesso, stretti fra incombenze lavorative, sociali e famigliari, delegano l’educazione del figlio/a ad altre figure, come i nonni, o gli insegnanti – anche se questa delega è spesso sana e funzionale all’equilibrio dell’intero sistema familiare. Stretti tra eredità culturali vincolanti e colpevolizzanti, faticano a porsi come figure autorevoli per i figli, i quali, troppo presto consapevoli delle loro difficoltà, scaricano le loro insicurezze dentro e fuori casa (Nardone et al., 2001). Quando finalmente il figlio si avvia a scuola, ecco che i genitori si augurano di poter definitivamente delegare all’Istituzione e a chi vi lavora la loro formazione. Quando si verifica, questo processo si avvia velocemente a strutturarsi con il famoso rimbalzo delle responsabilità scuola/famiglia, all’interno del quale il minore risulta deresponsabilizzato e comincia a costituire, se problematico, un peso per entrambe.
Delega degli insegnanti
Gli insegnanti a loro volta vivono un momento di grande difficoltà, in particolar modo all’interno della scuola pubblica. Il loro ruolo attaccato e squalificato da più fronti, caricati di responsabilità (vedi il punto precedente) che dovrebbero condividere con la famiglia di origine, stretti fra scadenze ministeriali troppo rigide per contesti sociali che – in particolar modo in adolescenza – cambiano alla velocità della luce, cercano di essere, a volte a turno a volte insieme educatori, istitutori, dipendenti pubblici, ed altro. Inoltre il corpo insegnante è intrappolato fra due opposte visioni della trasmissione/costruzione del sapere: la prima, sempre più basate su prove standardizzate, incapaci di valutare il livello di elaborazione individuale dell’alunno; la seconda, che contempla la didattica inclusiva, di gruppo, e favorisce una visione del bambino come costruttore attivo del sapere. Incompatibili l’una con l’altra. Il minore problematico risulta quindi, spesso, troppo pesante da gestire per le due agenzie che per prime dovrebbero attuare le strategie di contenimento e gestione delle sue difficoltà. E’ per questo che, spesso, il problema educativo viene trasformato in sanitario, invocando l’intervento dei professionisti della salute mentale.
Delega dei professionisti della salute
Questi ultimi sono reduci da un paio di decenni in cui la psichiatria (e la neuropsichiatria) hanno costruito, con l’entusiasta beneplacito, forse non del tutto disinteressato, delle case farmaceutiche, una visione dell’uomo basata sul cervello, al punto da far coniare l’espressione mindless brain. Secondo tale prospettiva, i comportamenti, le percezioni, le emozioni umane sarebbero diretta espressione di meccanismi cerebrali, i quali possono essere corretti e modificati, una volta identificati. I disturbi psicologici sarebbero, secondo una prospettiva derivata da quest’ultima, direttamente derivati da squilibri nell’attività dei neurotrasmettitori, facilmente – e non c’erano dubbi – correggibili tramite farmaci psicoattivi facilmente prescrivibili ed utilizzabili, anche dai minori. Ed ecco l’ultimo pezzo della delega: il professionista della salute mentale in questi casi, lungi dall’essere (come un tempo era chiamato, inderogabilmente) un abile osservatore del contesto, della psicologia, dei processi di sviluppo e relazionali in cui è immerso il minore, diventa, al pari di neurologo, prescrittore di sostanze psicotrope in grado di correggere tali presunti difetti cerebrali del bambino. Egli delega alla molecola del farmaco, silenziosa ed impersonale, l’ascolto e la comprensione che non è riuscito a fornire [1]: naturalmente l’efficacia di tale intervento è tutta da dimostrare, come non lo sono i suoi effetti collaterali, fisici e psicologici.
[1] Mentre le altre discipline mediche rivalutano sempre di più l’importanza della relazione medico-paziente, sia per migliorare la compliance al trattamento (cioè il grado di adesione alle prescrizioni terapeutiche – Milanese & Milanese, 2015), sia per migliorarne l’efficacia, tramite i sempre più apprezzati fattori psicofisici legati all’effetto placebo (Soresi, 2005), la psichiatria, come medicina della mente, se ne allontana sempre più (Paris, 2008), con una spettacolare inversione a U rispetto ai decenni precedenti gli anni ’80, nella speranza di raggiungere uno status di disciplina scientifica simile alle altre branche della medicina. Ma questo, come il fatto che, se essa vi riuscisse smetterebbe di esistere, diventando semplicemente un ramo della neurologia, non è che uno dei tanti paradossi del’ambito.
Bibliografia
Milanese, R. & Milanese, S. (2015). Il tocco, il rimedio, la parola. La comunicazione medico-paziente come strumento terapeutico. Firenze: Ponte alle Grazie.
Nardone, G., Giannotti, E., Rocchi, R. (2001). Modelli di famiglia. Conoscere e risolvere i problemi fra genitori e figli. Firenze: Ponte alle Grazie.
Paris, J. (2008). Prescriptions for the mind. A critical review of contemporary psichiatry. New York: Oxford University Press.
Soresi, E. (2005). Il cervello anarchico. Torino: Utet.
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