Uno dei presupposti non verificati di alcuni correnti psicoterapeutiche è quello in base al quale sia possibile, per il terapeuta, condividere una esperienza con il cliente; o meglio, in alcuni casi, condividere l’esperienza del cliente.
Al centro di questa idea c’è il concetto di empatia: com’è noto, si tratta di una parola utilizzata in primo luogo in ambito artistico (la condivisione dell’esperienza emotiva dell’artista che prova colui che partecipa dell’opera d’arte osservandola), ma in ambito psicologico e psicoterapeutico ha avuto una importanza sempre maggiore, al punto da diventare per molti il paradigma di un “buon” modo di relazionarsi, in grado di costruire “buone” relazioni. La definizione di Rogers (1962) è:
Fare esperienza del mondo interno dei significati personali del cliente come se fossero i propri, ma senza mai perdere la qualità ‘come se’.
Come fa notare Drewery (2005), tuttavia, sperimentare i significati personali dell’altro come se fossero i propri richiede di mettere tra parentesi i propri significati personali, oppure di sperimentare i significati dell’altro tramite i propri.
Sorge spontaneo un certo scetticismo rispetto alla prima possibilità: com’è possibile, infatti, mettere tra parentesi la rete di significati che ci permette di muoverci nel mondo, costruendo istante dopo istante la nostra realtà? Come possiamo pensare di imporci, tramite un atto volontario, la sospensione delle lenti con cui guardiamo noi stessi, gli altri e il mondo, quelle lenti che non solo direzionano il nostro agire, ma che ormai lo fanno fuori e al di là della nostra consapevolezza?
Per quanto riguarda la seconda possibilità, è evidente che conduce ad un paradosso logico: pensare di sperimentare i significati dell’altro tramite i significati che ho già mi porterà al tentativo di incasellare, forzare l’altro (in modo più o meno esplicito) all’interno del mio già strutturato punto di vista. Se sarò fortunato, il risultato migliore che potrò ottenere sarà visualizzare le lenti dell’altro tramite le mie: ciò che è molto diverso dal “fare esperienza dei mondi personali del cliente come se fossero i miei”.
Sembra infatti che il costrutto di empatia, per quanto ottimista e pieno di buone intenzioni, conduca a null’altro che
l’esperienza delle proprie buone intenzioni nei confronti dell’altro. Come basi per una relazioni, quindi, le percezioni di comunanza sono qualcosa di cui guardarsi (Drewery, 2005)
In conclusione, Drewery ci invita ad una metafora differente, che non si basa sul costrutto (come abbiamo visto, problematico) della presunzione di comunanza: quello di ospitalità per lo straniero. Ospitalità come atteggiamento gentile verso una persona che si sa diversa ed in un certo qual modo inconoscibile. Forse più umile ma, chissà?, più semplice e funzionale.
Riferimenti bibliografici
Drewery, W. (2005). Why we should watch what we say: Position calls, everyday speech and the production of relational subjectivity. Theory & Psychology, 15(3), 305-324.
Rogers, C.R. (1962). The interpersonal relationship: The core of guidance. Harvard Education Review, 32, 416–429
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