Sapevo che saresti arrivato. Me lo aspettavo, c’erano tutti i segnali. C’erano stati anche alcuni momenti di tensione, non si sapeva esattamente quando nè, dopotutto, come. Li avevamo superati, credo, senza ansie troppo grandi, dopotutto eravamo felici del tuo arrivo.

Quando però sei entrato in casa nostra, è stato come se non ci conoscessimo. Avevo voglia di stare con te, certo, ma alla fine chi poteva dire come sarebbe stato il tempo insieme? Di sicuro tu te ne sei reso conto, e per un po’ te ne sei stato sulle tue – forse avevi bisogno di prendere le misure, conoscermi un pochino.

E noi abbiamo aspettato – io ho aspettato, con tutta la pazienza che potevo, che ti lasciassi un poco scrutare, che aprissi qualche spiraglio, ho aspettato di scorgere nei tuoi occhi quello sguardo, lo sguardo con cui mi avresti detto che anche tu cominciavi a sapere chi sono, che dopotutto ricordavi che io ero presente dall’inizio, dall’inizio del presente.

Non sapevo però – o forse lo sapevo, in qualche piega nascosta della mia anima che non mi andava poi tanto di guardare, non so – che sarei stato io a imparare da te come fare a parlare. Pensavo di sapere come farmi capire – tu mi hai mostrato che ero ancora all’inizio. Mi hai detto: “Sei sicuro?” e con sorpresa mi sono accorto che non lo ero. Mi hai chiesto: “Che ne pensi?” e allora ho saputo di non saperlo. A volte, di fronte a qualche personaggio che mi piaceva interpretare, senza incertezze ti ho sentito: “Mah. Non mi convince.”

Chissà se già pensi qualcosa di me…oppure se sono ancora fortunato, non hai un’idea di me, ma solo di ciò che faccio.

Vorrei però riuscire a dirti, per il giorno in cui sei arrivato, e per tutti quelli che gli sono seguiti, con un sussurro che ti accompagni nei sogni:

“Ben arrivato, figlio mio”.