Il mio lavoro riguarda il cambiamento. Quello voluto, quello desiderato, quello immaginato o cercato, evitato o temuto.
Tutto ciò che faccio nel mio lavoro riguarda, da un certo punto di vista, sistemi umani che hanno qualche problema con il cambiamento: alcuni non riescono ad ottenerlo anche se lo vorrebbero, altri lo hanno subìto dalla vita, in forme che mai avrebbero immaginato, e che provocano dolore.
Vi sono famiglie che si devono adattare all’adolescenza del primo figlio, alla nascita del secondo, al disagio del figlio unico, al tradimento o al conflitto. Vi sono persone, ragazzi, uomini o donne, qualcuno vorrebbe superare una paura, qualcuno vorrebbe cambiare il suo lavoro, superare le sue compulsioni, migliorarsi nella relazione con gli altri, la spinta a trovare il cambiamento.
Proprio da me sarebbe quindi insensato dire che il cambiamento, in realtà, non esiste; dopotutto vivo di quello!
Cambiamento e narrazione
La parola “cambiamento”, però, indica uno solo dei possibili modi in cui possiamo narrare (o tentare inutilmente di descrivere con obiettività), il grande flusso di eventi che ci capitano intorno. Esso ha quindi a che fare con i modi con cui isoliamo un evento, lo mettiamo in relazione a ciò che lo ha preceduto e a ciò che è venuto dopo, e identifichiamo in esso una trasformazione. Immaginate una madre che guarda il figlio adolescente e dice: “Sei cambiato, prima eri più rispettoso”. Ha preso ciò che percepisce del presente (ad esempio, la rispostaccia del figlio), e lo ha comparato con un ricordo (cioè una rappresentazione mentale) della risposta che il figlio, nel passato, avrebbe dato in una situazione simile. E chiama la differenza fra le due rappresentazioni “cambiamento” (O’ Hanlon, Wilk, 1987).
Ma allora esiste o no?
Ma certamente, almeno se diamo credito a Hugo von Hofmannsthal, secondo il quale
Tutto ciò che è creduto esiste.
Ciò che interessa è però ciò che permette questa esistenza, che non dovrebbe essere pensata come una esistenza in sè, ma come una esistenza percettiva. E, seguendo il grande psicologo, apprendiamo che:
Perchè la parola “cambiamento” possa essere utilizzata è necessaria una qualche forma di memoria storica. Senza la memoria di uno stato precedente a cui comparare uno stato successivo, non ci potrebbe essere alcuna percezione della differenza, necessaria per poter parlare di cambiamento (von Gaserfeld.
In altre parole, dobbiamo stare attenti a trasformare il “cambiamento” da nostra percezione – ricordo il passato, osservo il presente, vedo una differenza e la chiamo “cambiamento” – a “cosa”, un oggetto che possiamo cercare, ottenere, guadagnare o conquistare.
Anche perchè, come sottolinea Bateson (1989),
Il cambiamento non è un’entità, è soltanto qualcosa che qualcuno ha estratto dal gran flusso degli eventi e reso argomento di conversazione. Magari argomento di spiegazione.
E allora: perchè mio figlio si comporta in questo modo, si chiede la madre? Perchè è cambiato.
Bibliografia
Bateson, G., Bateson, M. C. (1989). devo gli angeli esitano: verso un’epistemologia del sacro. Milano: Adelphi.
O’Hanlon, B., & Wilk, J. (1987). Shifting contexts: The generation of effective psychotherapy. Guilford Press.
Von Glasersfeld, E. (1995). Radical Constructivism: A Way of Knowing and Learning. Studies in Mathematics Education Series: 6. Bristol: Taylor % Francis.
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