Nel 1918 uno dei più sanguinosi conflitti della storia, sicuramente (insieme a quello di poco meno di trent’anni dopo) il più sanguinoso della nostra storia nazionale, conobbe la sua fine. Iniziato per cause apparentemente trascurabili, in realtà dava sfogo a tensioni profonde e mai sopite fra i diversi stati europei; sarebbero esplose con una violenza che, probabilmente, sorprese anche i suoi maggiori protagonisti e sostenitori.
Com’è noto l’Italia, sebbene precedentemente alleata degli Imperi della Triplice Alleanza, avrebbe avviato delle trattative segreto con la Triplice Intesa, dichiarando guerra nel 2015 all’Impero Austro-Ungarico. Sperava in questo modo di guadagnare quei terreni che venivano considerati parte naturale dello Stato Italiano, il Friuli Venezia-Giulia, il Trentino Alto Adige e Trieste e l’Istria con la città di Fiume.
Poco più di venticinque mesi dopo la resa: l’Esercito aveva vinto, il nemico sconfitto si ritirava e il Paese intero tirava un sospiro di sollievo e gioia. Si lasciava però alle spalle un numero impressionante di morti. Non c’era famiglia che non contasse un giovane caduto, come testimoniano le lapidi commemorative sparse in ogni comune e frazione. Nessuno, tra coloro che ora proseguivano la vita dopo l’armistizio, poteva dire di non sentire la mancanza di un giovane che, arrivato al fronte, non ne era più tornato. Il momento in cui la guerra si concludeva coincideva con quello, doloroso, della conta definitiva dei morti, dei feriti e dei mutilati di guerra, quello del distacco definitivo, dell’addio.
Quante erano le famiglie che non avevano potuto seppellire i propri caduti sul Carso, a Caporetto, sul Piave o negli altri teatri di guerra? Quanto faceva (o fa ancora oggi) parte del percorso di elaborazione del lutto l’accompagnare la salma nell’ultimo, breve tragitto fino alla sepoltura? Quante famiglie speravano di sapere, a magra consolazione, almeno dove fossero coloro che avevano perso?
Si trattava di un lutto di dimensioni epiche, una tragedia immane.
Un lutto, forse, nuovo: perchè nella quantità infinitamente maggiore accomunava intere nazioni e, forse, l’intera Europa anche se quasi nessuno se ne accorse. E qui ha inizio la storia del Milite Ignoto; una storia nuova e antichissima allo stesso tempo. La storia di un rituale e di un simbolo che, messo al centro del lutto collettivo, ne avrebbe silenziosamente officiato lo svolgimento.
I rituali hanno da sempre avuto la funzione di sancire un passaggio: di stato, di periodo, la transizione di un gruppo o di un individuo (Van der Hart, 1978). Sono sempre esistiti rituali sociali, familiari e individuali (non è un caso che la psicoterapia ne ha fatto un potente strumento di cura), ma forse era la prima volta che si rendeva necessario un rituale su scala nazionale.
Il corpo del milite ignoto venne scelto in modo casuale: nessuno doveva poter risalire alla sua identità, in modo che tutti vi potessero immaginare quella dei propri morti. Un simbolo concavo di significato, in cui ognuno potesse proiettare il suo dolore privato. Un morto per centinaia di migliaia – le lacrime di tutti.
Nel suo giro per molte città, paesi, campagne, accompagnato da tutti – per un attimo sembrava accostarsi per poi distaccarsi nuovamente; la lenta discesa verso il saluto definitivo. E – infine – la tumulazione sul Vittoriano, e la domanda silenziosa: sarà mio figlio quello?
Naturalmente, altri simboli e altre celebrazioni, la pomposità della cerimonia e il saluto dei militari, ma anche il tentativo di trovare nel dolore una causa di comunione.
Riferimenti bibliografici
Morosi, S., Rastelli, P. (2018). 4 Novembre 1918: fu vera gloria? Storia e mito di Vittorio Veneto. Milano: RCS Mediagroup S.P.A.
Van der Hart, O. (1978). Rituals and Psychotherapy. Transition and Continuity. Ardent Media.
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