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Ed eccoci qui, tutti impegnati sul difficile fronte della salute, del benessere, della crescita e realizzazione personale. Chi di noi è impiegato in una struttura, chi lavora come libero professionista, chi come consulente; siamo educatori, psicologi, psichiatri, coach, counsellor e chi più ne ha più ne metta.
Svolgiamo un lavoro difficile (chi lo può negare?): favorire il cambiamento e la trasformazione con le persone, tramite qualcosa di difficile definizione (la relazione) e con strumenti che cambiano di volta in volta, che ben si adattano ad alcuni casi, male e forzatamente ad altri.
E se è vero che, come sosteneva Seneca, ‘non esiste vento favorevole per il marinaio che non sa dove andare’, sappiamo quali sono gli obiettivi per cui lavoriamo, sappiamo riconoscere quando li raggiungiamo e di conseguenza quando il nostro lavoro non è più necessario.
Mmh.
Ma…
Siamo sicuri?
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L’autoinganno del successo
Ancora peggio, da un punto di vista concettuale, andava quando il caso in questione procedeva bene; la persona stava meglio, e nonostante gli obiettivi e gli interventi mal-definiti c’era la sensazione diffusa che stesse facendo dei passi in avanti. In questi casi spesso l’equipe cadeva in un’altra, ma altrettanto insidiosa, trappola: quella, cioè, di pensare che se le cose erano andate bene fino a quel momento potevano continuare ad andare sempre meglio, sempre meglio, sempre meglio. Si cominciava, in altri termini, a intendere il lavoro con quella persona come senza fine, dato che il miglioramento di sè è una strada che può proseguire fino all’ultimo respiro.
La gratificazione dell’influenzare gli altri
Ma prima di continuare con il mio ragionamento trovo che dobbiamo guardarci in faccia ed essere onesti con noi stessi: influenzare gli altri è gratificante. Fa sentire importanti; se vita è un viaggio, il professionista in quel momento è l’hub, l’aeroporto in cui non solo si viene e si va, ma il luogo in cui il paziente/cliente cambia direzione, scopre nuove possibilità, si apre a destini diversi. Rinunciare al ruolo di hub, come vedremo, non è semplice.
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Un circolo vizioso: ovvero come iniziare una Never Ending Therapy
Ci troviamo di fronte a tre questioni che si alimentano a vicenda: costituire uno snodo di trasformazione e cambiamento (della vita degli altri) è gratificante, e alcune – letali – leggerezze concettuali possono (purtroppo) spingerci a difendere questo status a oltranza. Se gli obiettivi non sono chiari, se non è chiaro nella nostra mente il progetto di trattamento (o di intervento), se non ci dichiariamo il tempo che necessita, ecco che la trappola si chiude. Non sappiamo quando abbiamo successo (e quindi è tempo di ritrarre la mano e lasciar andare) e non sappiamo quando falliamo (ed è quindi tempo di cambiare strategia oppure di dichiarare la propria inadeguatezza). E allora si continua come prima: senza rotta, soltanto sforzandoci di rimanere a galla istante dopo istante…
Umiltà
Perchè vedete, lavorare in modo diverso, con la consapevolezza dei propri strumenti, per raggiungere obiettivi chiari e definiti, progettando un piano di trattamento per fasi che sia strutturato ma anche flessibile, richiede umiltà. L’umiltà di sapere che la nostra influenza è solo passeggera, ed esiste solo in quanto il paziente ce la dona. Ed anche l’umiltà di sapere che nessuno, ma proprio nessuno, può avere a lungo un tale tipo di influenza sulla vita di un’altra persona: fortunatamente i destini individuali sono allergici alle catene. L’unica è aiutare la persona a raggiungere i suoi obiettivi, con l’influenza che lui ci chiede di avere; per poi, come dice Lao Tzu,
“Ritrarre la mano quando l’opera è compiuta: tale è la Via del cielo”.
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Dott. Giacomo Crivellaro, Psicologo Psicoterapeuta
a Firenze e Parma
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