Presi come siamo dall’unicità del momento che viviamo, tendiamo a dimenticarci che non è per niente unico. L’umanità ha sempre avuto a che fare con nuove malattie, che con una certa periodicità hanno flagellato nazioni, stati, famiglie, villaggi. Abbiamo dovuto adattarci. Abbiamo dovuto trovare dei modi per sopravvivere. E se come sembra alcune precauzioni hanno base soprattutto culturale, altre ne hanno una più profonda, che forse non sbaglieremmo a definire biologica (sempre che questa antiquata distinzione possa ancora avere un senso).
Un caso su tutti è quello del disgusto, emozione che, stando alle ricerche del famoso studioso Paul Ekman, sarebbe universale, cioè comune a tutte le popolazioni di tutte le culture. Ekman ha rilevato alcune particolari contrazioni iperveloci dei muscoli facciali, rilevandone determinate ripetizioni, per l’appunto trovandole ovunque. Al netto dell’evidente confusione di una reazione (la contrazione muscolare citata) con la percezione di uno stato interno, da cui la parola disgusto, che stando a Damasio (1999) la include automaticamente nella categoria dei sentimenti (cioè sensazioni di come-sto-io-in-questo-momento), è interessante rilevare la convergenza dell’emozione “disgusto” con la necessità di mantenere le debite distanze da oggetti o sostanze che potrebbero farsi veicoli di microbi e germi infettivi.
E’ l’oggetto della ricerca di Oaten e colleghi, i quali passando in rassegna una serie di studi, ci mostrano che ci disgusta ciò che potrebbe infettarci (ovviamente feci, urina, ma anche vari tipi di animali: topi, ratti e piccioni in pole position), gli stranieri (“lo sporco del prossimo è più sporco del mio”) e, rullo di tamburi, i malati. A prescindere dal fatto che soffrano di una malattia che potrebbe infettarci o no; il disgusto, come la paura, è automatico e cognitivamente impenetrabile. Vale a dire: non importa quanto possa essere irrazionale, e riconosciuto come tale, una volta attivato è fatta, non ci possiamo autoconvincere a non essere disgustati.
Altre caratteristiche: si nutre dell’evitamento, diminuisce con l’esposizione progressiva e reiterata, proprio come la paura (vedi Nardone, 2010; Nardone, 2016; Le Doux, 2015). In altre parole, più si è esposti, per scelta o per caso a qualcosa che disgusta, meno nauseabondo ci sembrerà in futuro.
Tiriamo le somme: il disgusto serve a proteggerci dalle infezioni. Non è ancora chiaro se e quanto sia influenzato da variabili culturali (il “se” è quasi certo, il “quanto” non si sa), ma può essere che le conseguenze dell’epidemia in corso ci daranno l’opportunità di verificarlo in vivo: proveremo una vena di disgusto quando ricominceremo a stringere le mani degli estranei? Tutti o solo qualcuno?
Vedremo.
Riferimenti bibliografici
Damasio, A. (1999). Emozione e coscienza. Milano: Adelphi.
LeDoux, J. (2015). Anxious. Oneworld Publications.
Nardone, G. (2010). Paura, panico, fobie. Firenze: Ponte alle Grazie.
Nardone, G. (2016). La terapia degli attacchi di panico. Firenze: Ponte alle Grazie.
Oaten, M., Stevenson, R. J., & Case, T. I. (2009). Disgust as a disease-avoidance mechanism. Psychological bulletin, 135(2), 303.
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