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Giacomo Crivellaro | Psicologo Psicoterapeuta
Terapia Breve Strategica e Ipnosi
Firenze, Parma e Montevarchi (Valdarno)

Nel gennaio del 1944 le truppe statunitensi del VI corpo d’armata si stavano preparando ad un grande sbarco sulla costa ad Anzio, a Sud di Roma. L’obiettivo era prendere le truppe tedesche, asserragliate presso la Linea Gustav, alle spalle, spingendoli quindi a disimpegnare parte delle loro forze e a velocizzare la ritirata, per evitare di rimanere intrappolate. La battaglia fu dura, la risposta tedesca più forte del previsto; si concluse solo in primavera, dopo violenti scontri.

Tra il personale militare che arrivò ad Anzio, vi era anche un anestesista di nome Henry Beecher: si occupava delle prime cure ricevute dai soldati feriti al fronte che, dopo il viaggio pericoloso e rocambolesco, giungevano in ospedale. Alcuni, feriti dalle schegge di granata, avevano lesioni e fratture, rese ancor più scomposte dal salvataggio sul campo, nel quale ben poca attenzione può essere riservata alle precauzioni riservate a chi subisce lesioni simili in altri contesti. Uomo curioso ma meticoloso, il dott. Beecher ebbe anche in quel contesto la prontezza di raccogliere alcuni dati sul dolore percepito da ogni paziente in arrivo (alcune ore dopo il “colpo” ricevuto) e la percentuale di coloro che richiedevano un anestetico (di solito la morfina) e di annotare, a fianco di ciascun caso, il tipo di lesione riportata.

Finita la guerra, Beecher, ora anestesista al Massachusetts General Hospital, era ancora impegnato ad alleviare il dolore dei suoi pazienti: non si trattava più, però, di soldati appena scampati all’inferno dello scontro, ma di persone che avevano subito traumi fisici per altri motivi. Animato dal suo antico spirito critico, cominciò a raccogliere i dati sulla forza delle percezioni dolorose dei pazienti e sulle percentuali di questi che richiedevano una terapia anestetica. Confrontandoli con i suoi appunti risalenti agli scontri attorno ad Anzio, si accorse di qualcosa di curioso: i soldati accusavano sofferenze molto minori di quelle riportate dai pazienti civili visti in ospedale. Dichiaravano di soffrire meno, e infatti chiedevano l’anestetico meno frequentemente. Anche quando altre variabili (età, tipi di lesione o di frattura, eccetera) erano simili. C’era però, per i soldati al fronte, una componente talmente rilevante da oscurare il dolore stesso: il semplice fatto di essere in ospedale implicava che non si trovavano più nel mezzo della battaglia. Inoltre, essere stati feriti voleva dire essere inabili combattimento: in altre parole, fra un po’ si torna a casa. Al contrario, per i pazienti civili, una lesione raramente è una buona notizia: quali saranno le conseguenze sulla mia salute a lungo termine? E sul mio lavoro? Potrò continuare la vita di prima?

Beecher si era accorto che l’elefante nella stanza (invisibile, ad esempio, negli studi sul dolore condotti in laboratorio) era relativo a qualcosa di diverso dall’origine fisica della sofferenza: qualcosa di così profondamente personale e psicologico da risultare spesso difficilmente rilevabile. Il significato (Beecher, 1956).

Se da un lato, il ruolo psicologico del significato sulla percezione della sofferenza è apparso chiaro in caso di dolore acuto, ancora maggiore risulta essere il suo ruolo nel caso del dolore cronico. Nel primo caso il dolore è un’asprezza esistenziale momentanea, il temporaneo manifestarsi di un problema che (si può sperare) sarà presto risolto. Il dolore che si cronicizza diviene una lente che colora la quotidianeità: spesso comporta radicali mutamenti nelle abitudini e “riti del quotidiano” (Bonino, 1987). Alcune attività divengono proibite o molto difficili, ma è soprattutto l’immagine di sé che spesso ne risente radicalmente: tutto ciò rischia di produrre una serie di cambiamenti a cascata nel modo di essere nel mondo, di percepirsi e di relazionarsi con gli altri nelle persone che ne soffrono. Nel momento in cui la sofferenza si fa compagna costante, le prospettive ed i progetti di vita si fanno più ridotti o comunque stinti dalla nebbia della sensazione dolorosa; la sua ombra si proietta sul futuro, oscurandone la visione e confondendone la prospettiva.

Sono frequenti le reazioni depressive, funzione della disillusione di un domani percepito come un “oggi, ma peggio” e cristallizzate sulla auto percezione di sé come vittima del proprio sintomo (Bair e colleghi, 2003). La prevalenza di umore depresso in pazienti con dolore cronico varia dal 13 all’85 %, a seconda del tipo di dolore e di popolazione considerata. Ma la relazione dolore cronico/depressione può essere descritta efficacemente da un altro dato: maggiore la superficie corporea interessata dal dolore, più profonda la depressione. In uno studio i pazienti con due aree dolorose fronteggiano un rischio sei volte più alto di vedere il proprio umore depresso, coloro con tre aree un rischio otto volte maggiore (Bair e colleghi, 2003). La relazione causale funziona però anche in senso opposto, come ha rilevato Beecher nel suo pionieristico studio: il significato catastrofico, la condanna che può essere associata al dolore ne invita l’anticipazione e la generalizzazione percettiva e narrativa, fornendo argomenti agli studiosi che hanno coniato l’espressione “sindrome doloroso/depressiva” (depression/pain syndrome, Lynsay e Wycoff, 1981). In effetti, gli effetti psicologici del dolore sono talmente pervasivi che alcuni autori hanno proposto l’idea che in questi casi uno “stato” problematico (il dolore) possa finire per strutturarsi in un problema di “tratto” (di personalità – Fishbain e altri, 2006).

 

Da quanto detto fin qua, si capisce come l’ipnosi, oppure per meglio dire gli interventi psicoterapeutici svolti tramite ipnosi, possano costituire un candidato ideale per il trattamento delle problematiche legate al dolore cronico.

Per saperne di più, potete scorrere il mio blog, in cui troverete altri approfondimenti sul tema. Per fissare un appuntamento, invece, andate pagina “Contatti”, troverete tutti i riferimenti del caso.

 

Riferimenti bibliografici

Bair, M. J., Robinson, R. L., Katon, W., & Kroenke, K. (2003). Depression and pain comorbidity: a literature review.i>Archives of internal medicinei>163(20), 2433-2445.

Beecher, H. K. (1956). Relationship of significance of wound to pain experienced. Journal of the American Medical Association, 161(17), 1609-1613.

Bonino, S. (1987). I riti del quotidiano. Milano: Bollati Boringhieri.

Fishbain, D. A., Cole, B., Cutler, R. B., Lewis, J., Rosomoff, H. L., Rosomoff, R. S. (2006). Chronic pain and the measurement of personality: do states influence traits? Pain Medicine, 7 (6).

Le Breton, D. (2007). Antropologia del dolore. Meltemi Editore srl.

Lindsay, P. G., & Wyckoff, M. (1981). The depression-pain syndrome and its response to antidepressants. Psychosomatics22(7), 571-577.



Giacomo Crivellaro; Psicoterapia Breve Strategica e Ipnosi a Firenze, Parma e Montevarchi (Valdarno)
Psicologo Psicoterapeuta a Firenze, Parma e Montevarchi (Valdarno)
Sono Psicologo Psicoterapeuta. Diverse esperienze lavorative in alcuni ambiti della Salute Mentale mi hanno portato ad approfondire la Terapia Breve Strategica, approccio che considero il migliore, in ambito psicoterapeutico e non solo. Sono un curioso impenitente, un critico impietoso (anche verso me stesso, ahimè!) e un lettore accanito. Ricevo come Psicologo Psicoterapeuta libero professionista nei miei studi di Firenze, di Parma e a Montevarchi (AR), dove collaboro con il Centro ABA e Psicoterapia Valdarno della Associazione Vento a Favore, di cui sono socio fondatore. Sono Psicoterapeuta Ufficiale e Ricercatore del Centro di Terapia strategica di Arezzo.


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