Una delle metafore che più mi affascina dell’uso che facciamo della nostra lingua è quella del tempo come quantità (Lakoff & Johnson, 1980).
Ti trovo un spazio in agenda.
Oppure del tempo come spazio…in ogni caso qualche cosa di finito, una sorta di bene che posso finire, come segue:
Non mi ci stanno più appuntamenti.
Oppure anche:
Sto finendo il tempo (è carina anche in inglese: “I’m running out of time”).
Mi affascina perchè mi fa pensare a quanto anche le cose apparentemente più ovvie (come il tempo o lo spazio) sono mediate percettivamente dal modo in cui la nostra lingua le costruisce. Mi affascina anche perchè mi sembra che sia lo specchio del modo in cui viviamo con l’angoscia di perderci qualcosa, di sprecare (o di non far fruttare) qualcosa, come anche il suo figlioccio:
Il tempo è denaro.
Secondo uno studio (Casasanto & Boroditrky, 2008), secondo me molto interessante, le rappresentazioni spaziali e quelle temporali sarebbero asimmetricamente dipendenti. Le prime, in altre parole, essendo più immediatamente percettibili, fornirebbero il substrato per la rappresentazione del tempo, e ne avrebbero determinato la metafora linguistica [1].
Assimetricamente, ma non unilateralmente. Se è vero che possiamo essere solo
a cinque minuti da casa tua.
[1] Questo punto non segue necessariamente il precedente. Infatti, diversi studi hanno mostrato che la percezione, anche spaziale, varia in virtù del linguaggio utilizzato per descriverla (Salvini & Bottini, 2011).
Bibliografia
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