Di recente sono andato a trovare mia madre. Ormai da alcuni anni vive sola, sebbene abbia molte conoscenze e amicizie e non le manchi certo una vita sociale. E’ un appartamento carino e accogliente, arredato con un gusto elegante ma non pacchiano, quello stile che ho sempre invidiato perchè mostra senza esibizionismi una naturalezza che temo non avrò mai. In più, andando da lei, ritrovo sempre, sparsi qua e là, oggetti che ricordano la mia infanzia: un quadro, quella foto di me e mio nonno e parte di quella che fu la libreria di famiglia.
Mi capita sottomano “E l’uomo incontrò il cane” di Konrad Lorenz, il famoso etologo. Lo avevo iniziato più di vent’anni fa, e penso sorridendo che E’ PROPRIO LO STESSO LIBRO! Lo accarezzo, apprezzando la superficie ruvida della copertina, e penso che sebbene tante cose siano cambiate per me, lui è rimasto lì, quasi ad aspettarmi, come se avessimo una questione aperta che, con fiducia, sapeva che avremmo prima o poi risolto. Rileggo con emozione il primo capitolo: è splendido, e mi accorgo di ricordarlo quasi perfettamente. Ho uno strano senso di sdoppiamento mentre da un lato vivo il racconto di Lorenz, mentre dall’altro mi assalgono a ondate ricordi e sensazioni risalenti alla prima lettura. Racconta in forma un po’ fiabesca i primissimi incontri, o dapprincipio scontri, tra l’uomo e gli antenati selvaggi dei cani: intanto, mi ritrovo nella mia stanza da ragazzo, il profumo del glicine in fiore, le scampagnate in bici nella pianura lombarda.
Ma come mai mi ero fermato? Il primo capitolo, infatti, mi ha affascinato e avvolto oggi come allora. Ho persino letto altri libri di Lorenz (“L’Anello di Re Salomone” era già bastato per affezionarmi al personaggio, pensando che mi sarebbe piaciuto conoscerlo meglio)…
Arrivo al secondo capitolo, il cui inizio recita così:
L’attaccamento di un cane nasce da due fonti istintuali fondamentalmente diverse. Soprattutto nelle nostre razze europee esso è in gran parte conseguenza di quei vincoli che legano il cucciolo selvatico ai suoi genitori, vincoli che però nell’animale domestico permangono come manifestazione parziale di un generale infantilismo. L’altra radice dell’attaccamento è nella fedeltà che lega il cane selvatico alla figura di un capo branco, ma anche nell’affetto personale che unisce fra di loro i compagni di branco.
Mi fermo, rifletto. Mi ricordo bene il senso di fastidio che mi avevano provocato quelle righe. In quel periodo, infatti, un travagliato periodo familiare mi spingeva a cercare un barlume di familiarità dove potevo, una specie di ricerca un po’ ansiosa e vagamente tardiva di un rifugio sicuro. Una ricerca che ora so essere, citando, “infantile”, in quanto speranzosa di un aiuto dall’esterno, in grado di sostuirmi nelle mie incapacità. Sarebbe stata sostituita da lì a poco con il miraggio di un capo branco, forse per trovare quella forza che pensavo mi mancasse completamente; qualche anno dopo avrei iniziato a fare più leva su me stesso, abbandonando definitivamente la speranza che qualcuno potesse farlo per me. Questo breve brano insomma mi rispecchiava profondamente, mettendo implicitamente in luce i miei limiti di allora; questo era bastato a spingermi ad allontanarlo.
Capisco che oltre non potessi andare. Ma, dopo questa pausa di riflessione, scivolo senza sforzo nei capitoli successivi.
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