Uno studio del 1973 si occupo’ di verificare l’accuratezza delle diagnosi di disturbi mentali di alcuni ospedali del New Engand statunitense, confrontandoli con le diagnosi, sugli stessi pazienti, ottenute con strumenti standardizzati e strutturati, e portate avanti da uno sperimentatore, in vece del personale sanitario dell’ospedale.
I ricercatori rilevarono una discrepanza già parzialmente ritrovata in studi precedenti: i pazienti di colore avevano una probabilità molto più alta di essere diagnosticati come schizofrenici, ed in converso, molto più bassa di essere diagnosticati depressi o sofferenti di disturbi dell’umore. In altre parole, la “razza”, o il colore della pelle, sembrava renderli particolarmente suscettibili ad una malattia cronica ed in definitiva incurabile (la schizofrenia), e meno a rischio di tristezza e mancanza di speranza patologica. Tale differenza svaniva, però, quando la diagnosi era portata avanti dallo sperimentatore sulla base di strumenti standardizzati, diminuendo quindi il “fattore umano” del clinico. Al punto che i ricercatori conclusero il loro articolo in questo modo:
Gli psichiatri degli ospedali dovrebbero essere consapevoli dell’esistenza della depressione per i pazienti di colore.
Che diavolo era successo?
Che razza di diagnosi….?
Salta subito agli occhi che la schizofrenia è considerata una malattia cronica e ad andamento peggiorante, al contrario della depressione, che può andare incontro a remissioni temporanee o definitive, e risponde bene alla psicoterapia (Muriana et al., 2006). I pazienti neri andavano quindi incontro a trattamenti farmacologici più invasivi e debilitanti, con ospitalizzazioni volontarie o meno (Lawson et al., 1994), e più o meno a lungo termine, con conseguenze tutt’altro che “terapeutiche” in termini di alienazione sociale e cronicità. Sembrerebbe che quando si parla di pazienti di colore, i clinici siano più propensi ad interpretare gli stessi sintomi come più gravi che non con i bianchi.
Si dirà: il razzismo sta diminuendo, di sicuro le diagnosi sono diventate più affidabili.
Purtroppo ci troviamo di fronte ad una duplice smentita: non solo gli studi successivi hanno confermato la tendenza degli studi degli anni Settanta, (Neighbours et al., 1989; Strakovsky et al., 1993; Strakovsky et al., 1995; Lawson et al., 1994;) ma uno studio del 2004 (Barnes, 2004), a più di trent’anni di distanza, mostra che tale “dispercezione diagnostica” non sembra diminuire, i pazienti di colore ricevevano la diagnosi di schizofrenia quattro volte più frequentemente dei bianchi.
Al contrario, sembra che tale differenza di “sensibilità diagnostica” si verifichi anche nei confronti di ragazzi minorenni, ad esempio all’interno di contesti penitenziari (Kaba et al., 2015)- ricordiamo che negli Stati Uniti sono molto più frequentati che da noi. Altre differenze basate sull’appartenenza etnica sono state rilevate anche al di fuori del contesto penitenziario (Liang et al., 2016). Data la loro giovane età, i danni di una probabile diagnosi errata, con conseguente sbagliato trattamento, saranno tanto più protratti nel tempo.
La situazione in Europa
Dai pochi studi condotti in Europa vediamo che la situazione, nei confronti di minoranze etniche, rischia di non essere troppo diversa. Ad esempio, Haasen et al. (2007) hanno rilevato una tendenza simili in Germania nei confronti di immigrati turchi; potrebbe però essere ancora aperta la partita, se Zwirs et al. (2007) non rilevano in Olanda (non a caso esempio principe in Europa di integrazione di culture diverse) una differenza diagnostica basata sull’appartenenza etnica, con minorenni.
Non si può fare a meno di chiedersi quanto i sintomi di disagio mentale, quando sperimentati da persone “altre” per eccellenza, etnicamente, culturalmente, religiosamente diversi da chi valuta, vengono giudicati tanto più gravi di quanto non lo sarebbero se vissuti da qualcuno vicino o simile al diagnosta. Tanto per fare un esempio, Hampton (2007), mette in evidenza il rischio di scambiare la “sfiducia culturale” della popolazione di colore – dovuta a secoli di sfruttamento e oppressione – per paranoia, in questo modo aumentando esponenzialmente il rischio di diagnosi errate di schizofrenia.
Ed ecco che le due alterità storiche, la follia e la differenza culturale o etnica, diventano una sola: nel nome della cura (!!), ci si distanzia ulteriormente da quell’altro che, in caso di bisogno, può sempre essere controllato chimicamente.
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Bibliografia
Haasen, C., Yagdiran, O., Mass, R., & Krausz, M. (2000). Potential for misdiagnosis amongTurkish migrants with psychotic disorders: a clinical controlled study in Germany. Acta Psychiatrica Scandinavica, 101(2), 125-129.
Hampton, M. D. (2007). The role of treatment setting and high acuity in the overdiagnosis of schizophrenia in African Americans. Archives of psychiatric nursing, 21(6), 327-335.
Kaba F, Solimo A, Venters H, et al. Disparities in Mental Health Referral and Diagnosis in the New York City Jail Mental Health Service. American Journal Of Public Health [serial online]. September 2015;105(9):1911-1916. Available from: Psychology and Behavioral Sciences Collection, Ipswich, MA. Accessed September 3, 2017. (su fisso)
Liang, J., Matheson, B., & Douglas, J. (2016). Mental Health Diagnostic Considerations in Racial/Ethnic Minority Youth. Journal Of Child & Family Studies, 25(6), 1926-1940. (su fisso)
Zwirs, B. W., Burger, H., Schulpen, T. W., Wiznitzer, M., Fedder, H., & Buitelaar, J. K. (2007). Prevalence of psychiatric disorders among children of different ethnic origin. Journal of abnormal child psychology, 35(4), 556-566.
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