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Giacomo Crivellaro | Psicologo Psicoterapeuta
Terapia Breve Strategica e Ipnosi
Firenze, Parma e Montevarchi (Valdarno)

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Credo che vedere le falle, ciò che non va negli altri abbia parecchi vantaggi. Penso che sia così utile che so già che la lista che segue è parziale, non si può elencarli tutti. Eccone alcuni, però:

1) Tanto per cominciare, sapere cosa non va negli altri è piacevole. È bello, fa stare bene, fa sentire importanti, e se sei un professionista della salute mentale ti fa sentire di non aver sprecato gli anni dall’università.

2) Secondo, permette di sentirsi distanti (mamma mia quant’è matto!) dalla sofferenza, dal dolore, dall’angoscia e dalla paura di chi sta dall’altra parte. Come a dire: se sta così male è perché c’è in lui/lei qualcosa che non va (e si pensa di sapere cosa): e quella cosa che non va noi non ce l’abbiamo, non staremo mai male come quello/a. Ancora, se sei un professionista della salute mentale ti farà bene pensare di essere di una razza diversa – migliorata – rispetto quella del paziente.

3) Quindi (terzo) fa sentire sicuri. Di ciò che si è (e che l’altro/a NON è), della conoscenza che si ha – riservata alla classe eletta di cui si fa parte – e del fatto che fortunatamente chi si ha davanti appartiene all’altra squadra (casta?), quella tarata.

 

Ecco perché sconsiglio al lettore di continuare a leggere; se si tratta di un professionista della salute mentale, infatti, non vorrei che iniziasse ad avere il dubbio – il cielo non voglia – che il treno della vita è piuttosto sgangherato per tutti, medici e pazienti.

 

Etichettamento: Pigmalioni vecchi e nuovi

 

Facciamo chiarezza sui termini: l’etichettamento è un processo che si verifica nel momento in cui il paziente viene a contatto con il professionista (psicologo psicoterapeuta, psichiatra, neuropsichiatra o simili), che identifica, sulla base della sua teoria di riferimento, il meccanismo, l’evento traumatico, il conflitto o il deficit che ha dato origine al suo malfunzionamento; in alcuni casi tale problematica è però reificata, cioè resa (sempre più) vera all’interno del colloquio. In altre parole, al posto del cambiamento del disagio o malessere, l’etichettante tende a cristallizzare il problema, rendendolo ancora più inattaccabile che in precedenza. E’ un processo sfaccettato, e cercherò di descrivere, all’interno dell’interazione con il paziente, come viene costruito e stabilizzato e come ne viene accresciuto il potere.

 

1) Perché ci sia un medico, ci dev’essere un paziente: la nascita dell’etichettamento

Innanzitutto, il professionista comincia col convincersi che esista una distanza rilevante fra sé e il paziente; questo aiuta ad attivare il cosiddetto ‘ragionamento clinico’ e ad impedire una relazione troppo stretta. Sfortunatamente comincia ad attivare l’etichettamento, che però a questo stadio è ancora solo nella testa del professionista. L’autoinganno è questo: se questa persona è venuta da me, deve avere qualcosa che non va. Detto in altri termini, uno di noi due dev’essere matto, e la mia laurea dice che non sono io.

 

2) Cerchiamo di capire come e quanto è matto: misurare realtà inventate.

Qui entriamo nella dinamica più propriamente colloquiale della costruzione dell’etichetta: il professionista, in altre parole, cerca attivamente le aree di deficit, quelle in cui c’è qualcosa che non funziona. Lavori, hobby o relazioni piacevoli o di successo vengono trascurati, al fine di identificare la tara (senza la quale il paziente non avrebbe bisogno del professionista). Naturalmente parlare unicamente di ciò che non funziona contribuisce a rafforzare nel paziente la convinzione che, almeno nel suo caso, i problemi sono molto più importanti delle aree di vita funzionali.

 

3) ‘Consapevolizzare’ il paziente: TU sei Babbo Natale, anche se non lo sapevi.

Questa fase è divisa in parti diverse, tutte accomunate dalla credenza che il paziente debba arrivare prima o poi a riconoscere la natura della sua patologia. Dapprincipio il messaggio viene veicolato soprattutto tramite canali non verbali, analogici (Haley, 1977): in altre parole il professionista sanitario comincia a comportarsi con il paziente come se quest’ultimo fosse intrinsecamente debole, deficitario o problematico. Non sempre questa fase è sgradevole, spesso il messaggio passa attraverso una peculiare forma di gentilezza o condiscendenza; l’effetto è quello di veicolare una suggestione implicita che comincia, strisciante, ad insinuarsi al di sotto della consapevolezza del paziente. Egli comincia a sentirsi peggio.

 

Ma ad un certo punto, ecco che arriva il momento di scoprire le carte. Finalmente la diagnosi può essere comunicata, affinché il paziente possa conoscere il male che lo affligge. Si tratta di una progressione di stratagemmi comunicativi che costruiscono una realtà: dapprima il professionista parla al paziente come se fosse gravemente malato per poi parlare sempre più apertamente dell’oscuro problema di quest’ultimo – possibilmente usando termini misteriosi e spaventosi, come dissociazione, disturbo bipolare, discontrollo degli impulsi, personalità borderline, ed altri.

 

In parallelo, il paziente può cominciare a comportarsi e relazionarsi come se soffrisse proprio del male diagnosticato. Questo non aiuta minimamente la ricerca di un migliore equilibrio, benessere o soddisfazione esistenziale, mantiene lo stato di sofferenza, devia l’attenzione dalla ricerca di soluzioni efficaci, ma, agli occhi del nostro professionista ingenuo, è segno di consapevolezza. Raffinata evoluzione del processo dell’etichettamento è la tendenza, da parte di alcuni professionisti, ad interpretare qualsiasi comportamento del paziente come sintomo della patologia che gli hanno già diagnosticato (Watzlawick, 1988; Nardone, 2002).

 

Ora, il processo è completo: il professionista ha creato l’etichetta, il paziente l’ha presa, fatta propria, ed è pronto per rimanere paziente a lungo.

 

Permettetemi però, se siete miei colleghi e pensate che il processo dell’etichettamento non sia pericoloso per i vostri assistiti, di concludere citando un famoso cantante ivoriano:

 

Vous jouez avec le feu. (Alpha Blondy)

Quando si gioca col fuoco, spesso qualcuno finisce per scottarsi.

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Dott. Giacomo Crivellaro, Psicologo Psicoterapeuta
Firenze e Parma
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Bibliografia

Haley, J. (1977). Le strategie della psicoterapia. Sansoni.

Nardone, G. (2002). Manuale di sopravvivenza per psico-pazienti. Milano: TEA Pratica.

Watzlawick, P. (1988). La realtà inventata. Contributi al costruttivismo. Milano: Feltrinelli.[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row]



Giacomo Crivellaro; Psicoterapia Breve Strategica e Ipnosi a Firenze, Parma e Montevarchi (Valdarno)
Psicologo Psicoterapeuta a Firenze, Parma e Montevarchi (Valdarno)
Sono Psicologo Psicoterapeuta. Diverse esperienze lavorative in alcuni ambiti della Salute Mentale mi hanno portato ad approfondire la Terapia Breve Strategica, approccio che considero il migliore, in ambito psicoterapeutico e non solo. Sono un curioso impenitente, un critico impietoso (anche verso me stesso, ahimè!) e un lettore accanito. Ricevo come Psicologo Psicoterapeuta libero professionista nei miei studi di Firenze, di Parma e a Montevarchi (AR), dove collaboro con il Centro ABA e Psicoterapia Valdarno della Associazione Vento a Favore, di cui sono socio fondatore. Sono Psicoterapeuta Ufficiale e Ricercatore del Centro di Terapia strategica di Arezzo.


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